La Var è il termometro del Paese

Juve Torino

Con un noioso 0-0 tra il Bologna ed il Milan si è conclusa ieri una interminabile sedicesima giornata di campionato, cominciata sabato alle ore 18.00 con Inter – Udinese (1 a 0 per la cronaca, a segno Mauro Icardi in Nara su rigore) e terminata, appunto, al martedì con l’altra squadra di Milano in scena allo Stadio dall’Ara.

Non lo scrivo per avviare una analisi calcistica dettagliata sulla giornata appena trascorsa, ma solo per chiarire ai nostri lettori il perchè questo editoriale, che avrei voluto tirar fuori domenica mattina, è stato finalizzato solo questa notte, all’atto del termine dell’ultimo match di serie A e con il quasi contestuale accordo raggiunto sulla manovra finanziaria italiana tra il governo gialloverde ed i burocrati di Bruxelles. Volevo che tutti gli eventi fossero terminati, per poter avere un quadro quanto più statico possibile su cui poter avviare un ragionamento.

Molti lettori potrebbero storcere il naso nel ritrovarsi piombati all’interno di un editoriale che inserisce in un unico calderone calcio e politica. Qualcuno potrebbe pensare che sia alquanto inopportuno mischiare il “sacro” col “profano” e lascerò libertà a chi ci legge nello stabilire quale dei due settori appartenga alla prima categoria e quale alla seconda.

Bisogna dire, però, che nella gran parte dei casi i segmenti ed i fenomeni sociali predominanti all’interno di un Paese, come lo è il gioco del football in Italia, rappresentano il termometro dello stato di salute morale, etico, sociale e, perché no, economico dello stesso. In sintesi possiamo dire che attraverso fenomeni simili al calcio, come può esserlo qualsiasi altro sport o fenomeno sociale o culturale predominante all’interno di una qualsiasi nazione, si può misurare lo stato di decadenza o di ripresa di una comunità.

Ed a vedere ciò che sta accadendo negli ultimi anni al nostro sport nazionale ci si rende conto che l’Italia non proviene e non attraversa, per usare un eufemismo, uno dei suoi periodi più floridi.

Il campionato, come dicevamo, è appena alla sedicesima giornata e non ha nemmeno attraversato ancora il giro di boa che dal girone di andata porta spediti a quello di ritorno.

Ma la sensazione, ricorrente ai più, è che sia ormai già terminato forse ancor prima di cominciare. E non solo per lo strapotere tecnico-tattico (indubbio) della squadra che da oramai sette lunghi anni domina incontrastata, ma per quella spiacevole sensazione che vi sia qualcosa di inscalfibile, di impenetrabile e di fastidiosamente ricorrente.

Lo spartiacque rappresentato dalla “calciopoli” del 2006 ci ha consegnato una governance del calcio italiano che invece di forgiarsi ed alimentare con coraggio i valori sani dello sport pare voler ricadere negli stessi imperdonabili errori. Ciò anche a scapito dell’intero comparto che, forse non è un caso, quest’anno si è ritrovato clamorosamente (per la sua seconda volta nella storia) a non partecipare ai Mondiali.

Così, alla linea del fuorigioco pre-calciopoli spostata telematicamente durante il “moviolone” indietro di qualche centimetro per compiacere chi all’epoca gestiva il “sistema calcio”, oggi, in periodo di straordinario avanzamento tecnologico, pare si compensi dando “libero arbitrio” ai direttori di gara nel decidere se far intervenire o meno la “Var” (Video Assistant Referee), introdotta lo scorso anno per provare a limitare al massimo gli errori arbitrali ma che, visto che questi forse venivano realmente quasi azzerati a favore di tutti, da quest’anno in nome del più “sano” decisionismo “dei migliori” e della improvvisa riscoperta della bellezza della “debolezza umana”, si è deciso di affidarne il suo utilizzo, appunto, alla libera scelta dei direttori di gara che, quando sono sicuri di aver visto bene, non ne vogliono sapere di farla intervenire, nemmeno in situazioni di iper-criticità.

Peccato che, purtroppo, il processo di “sudditanza psicologica” sin troppo ricorrente nel nostro calcio rischia, così come sta accadento, di rendere ridocola la Var, la sua (non) applicazione e tutti gli errori (ed orrori) che ne derivano. Ed allora ci ritroviamo un campionato noioso, privo di colpi di scena, così come non accade in nessuna altra parte dell’Europa calcistica che conti (persino in Francia, dove lo stramilionario Psg la fà da padrona, due anni fà vi fù la parentesi della cenerentola Monaco),  come ormai accade solamente dove vi sono gli Emiri, gli Sceicchi, i petroldollari ed i Principi a muovere i fili, spesso in campionati di scarsa, scarsissima rilevanza ed in situazioni dove la democrazia di sicuro non la fà da padrona.

La cosa che più preoccupa e fa riflettere in tutta questa vicenda (in cui, ricordiamo, chi ci rimette di più è l’appassionato, il tifoso che spende soldi per alimentare il proprio sentimento genuino a dispetto degli introiti milionari degli attori principali dell’indotto) è che quasi vi sia una inconsapevole rassegnazione, un non far caso, non dare credito e addirittura spesso non parlare più di determinati fenomeni, quasi siano entrati nell’immaginario collettivo degli appassionati come fossero normalità.

Una assuefazione favorita e spalleggiata dai grandi talk show calcistici nazionali, “salotti” all’interno dei quali gli opinionisti, molti storiche bandiere delle più svariate squadre di calcio, evitano con grande nonchalance di affrontare determinati temi e di soffermarsi su “alcuni” errori, quasi per paura che ciò possa comportar loro la perdita di emolumenti o gettoni di presenza.

Un processo di censura e di auto-censura degno dei peggiori regimi sanguinari che non permette un ritorno alla “normalità” ed alla competitività. Perchè se è vero come è vero che vi è un evidente gap tecnico tra chi guida il campionato e le inseguitrici, bisogna dire che non sempre nel calcio e nello sport, in condizioni di sana compensazione di errori, chi sulla carta è più forte vince, così come insegna la favola inglese del Leicester del 2016.

Il calcio nel nostro Paese è ormai un scontato, lambisce la depressione e la Var rappresenta la fotografia plastica di ciò che è diventato questo sport quasi in contemporanea con ciò che è diventantata l’Italia, da quando i burocrati europei hanno deciso di imbrigliarne la democrazia a fini speculativi, imponendo in serie governi tecnici (post 2011, dimissioni indotte di Berlusconi) che, negli ultimi anni, hanno trascinato il nostro Paese nella ragnatela dei parametri restrittivi e delle decisioni imposte da Bruxelles, che ne impediscono scientemente di rialzarsi e di avviare un rilancio economico e sociale.

 

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